Secondo la Corte di Giustizia UE:
 “1) La direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretata nel senso che essa disciplina l’esercizio di una professione, come quella di spazzacamino di cui trattasi nel procedimento principale, nel suo complesso, anche se tale professione comporta lo svolgimento non soltanto di attività economiche private, ma anche di compiti rientranti nel «servizio antincendi».
2) Gli articoli 10, paragrafo 4, e 15, paragrafi 1, 2, lettera a), e 3, della direttiva 2006/123 devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita l’autorizzazione all'esercizio della professione di spazzacamino, nel suo complesso, a un settore geografico determinato, allorché tale normativa non persegue in modo coerente e sistematico la realizzazione dell’obiettivo di protezione della sanità pubblica, circostanza la cui verifica spetta al giudice del rinvio.
L’articolo 15, paragrafo 4, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che non osta a tale normativa nell'ipotesi in cui i compiti rientranti nel «servizio antincendi» debbano essere qualificati come compiti connessi a un servizio di interesse economico generale, purché la limitazione territoriale prevista sia necessaria e proporzionata all'espletamento di tali compiti in condizioni economicamente sostenibili. Spetta al giudice del rinvio procedere a tale valutazione”.

Il testo della sentenza della Corte di Giustizia UE, Prima Sezione, 23 dicembre 2015 (C-283/14) è consultabile sul sito della Corte di Giustizia UE.



La Corte dei diritti dell’uomo condanna l’Italia a risarcire il danno per irragionevole durata di un giudizio amministrativo pur in assenza dell’istanza di prelievo.

Il testo della sentenza del 25 febbraio 2016 (cause 17708/12, 17717/12, 17729/12 e 22994/12) della Corte europea dei diritti dell'uomo è consultabile, nel testo francese, sul sito della CEDU al seguente indirizzo.



Il TRGA Trentino Alto Adige, Sezione di Trento, dopo aver concluso che, sebbene la legge abbia previsto che la posta elettronica certificata sia un mezzo idoneo per la notifica del ricorso introduttivo anche nel processo amministrativo, mancano ancora le regole tecnico - operative per utilizzare validamente il mezzo in esame, ritiene che in presenza di un ricorso notificato, nel rispetto del termine decadenziale, con posta elettronica certificata si sia di fronte a un’ipotesi non di inesistenza della notifica, con consequenziale impraticabilità di sanatoria, bensì di nullità.
Ne discende che, sulla scorta dell'art. 44, comma 3, c.p.a. e del principio della strumentalità delle forme processuali, la costituzione delle parti intimate, effettuata nei termini di legge e argomentata in rito e nel merito al fine di chiedere la reiezione del ricorso, è idonea a sanare la nullità (per effetto del raggiungimento dello scopo) e a instaurare validamente il rapporto processuale.

Il testo della sentenza del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa del Trentino Alto Adige, Sezione di Trento, n. 86 del 15 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.


Ricordiamo che giovedì 25 febbraio 2016 si terrà a Como, Aula Magna del Palazzo di Giustizia, dalle ore 15.00 alle ore 18.00, il secondo evento formativo del 2016 organizzato dalla Camera Amministrativa dell'Insubria, dal titolo "La tutela cautelare nel processo amministrativo", con relatore il prof. Marco Sica.


La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale dell’Umbria - dopo aver ricordato il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Riunite, secondo il quale l’art. 17, comma 30 ter, del decreto legge 1 luglio 2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009 n. 102, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all'immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale, che tratta dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione - precisa che tale principio va, tuttavia, applicato comprendendo in esso anche i casi in cui il delitto contro la pubblica amministrazione non solo sia stato oggetto di specifico accertamento del giudice penale ma abbia anche formato, nell'ambito di reato complesso, elemento costitutivo di più grave reato.
Diversamente, secondo il giudice contabile, occorrerebbe mettere in dubbio la stessa coerenza costituzionale di una norma che escluda dalla risarcibilità del danno d’immagine i delitti contro la pubblica amministrazione che siano stati strumentali per la commissione di reati più gravi nei quali, proprio a motivo della maggiore gravità, sono risultati assorbiti ai fini della punibilità.

Il testo della sentenza della Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale dell’Umbria, n.11 del 4 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Corte dei conti.


Il TAR Liguria esamina la disciplina sui servizi pubblici locali di rilevanza economica e precisa che:
  • i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando all'esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una “gara a doppio oggetto” per la scelta del socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto in house, senza previa gara, ad un soggetto che solo formalmente è diverso dall'ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest'ultimo i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) “analogo” a quello che l'ente affidante esercita sui propri servizi e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l'ente o gli enti che la controllano;
  • l'affidamento diretto o in house, lungi dal configurarsi pertanto come un'ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi pubblici locali, costituisce una delle (tre) normali forme organizzative delle stesse, con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell'affidamento diretto in house (sempre che ne ricorrano tutti i requisiti delineatisi per effetto della normativa comunitaria e della relativa giurisprudenza), costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà, ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti.

La sentenza della Sezione Seconda del TAR Liguria n. 120 in data 8 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.



Il Consiglio di Stato precisa che il reclamo disciplinato dall'art. 114, comma 6, del codice del processo amministrativo avverso gli atti del commissario ad acta può ritenersi esperibile a condizione che il commissario ad acta abbia esercitato in concreto un effettivo potere decisionale.
Quando invece il commissario ad acta abbia esercitato un ruolo solo istruttorio e preparatorio rispetto a un’esecuzione del giudicato destinata a sostanziarsi in successivi provvedimenti discrezionali di competenza delle autorità amministrative, le contestazioni delle parti interessate devono in tal caso essere proposte, secondo le regole generali, in sede di impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento.

Il testo della sentenza della Sezione Quinta del Consiglio di Stato n. 628 del 15 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.



Il Consiglio di Stato, a fronte di una integrazione in sede giudiziale della motivazione del provvedimento impugnato in primo grado, precisa che:

  • l’integrazione in sede giudiziale della motivazione dell’atto impugnato risulta inammissibile in quanto si risolve nell'introduzione, per la prima volta in sede processuale, di elementi di fatto che avrebbero dovuto essere oggetto di istruttoria e di contraddittorio in sede procedimentale;
  • diversamente opinando il processo finirebbe per diventare il luogo di celebrazione del procedimento, e non, come invece deve essere, il momento deputato al controllo di legittimità di una decisione provvedimentale adottata all’esito di un procedimento già concluso;
  • ciò implica che la legittimità dei provvedimenti impugnati non può che essere valutata considerando gli elementi e la motivazione su cui gli stessi si fondano, dato che, se così non fosse, si ammetterebbe, di fatto, un’azione diretta ad accertare se sussistono i presupposti per l’adozione del provvedimento prima e a prescindere dall'esercizio del potere nella sede procedimentale.


Il testo della sentenza della Sezione Sesta del Consiglio di Stato n. 550 del 9 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.


Il Consiglio di Stato, esaminando la disciplina in materia di nulla osta dell'Ente parco, preso atto che:
  • l’art 13, comma 1, della legge n. 394 del 1991 stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente parco, da rendersi entro il termine di sessanta giorni dalla richiesta, decorso il quale il nulla osta si intende rilasciato;
  • l’art. 20, comma 1, della legge n. 241 del 1990 prevede che nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda se la medesima amministrazione non comunica all'interessato, nel termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, della stessa legge n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego ovvero non procede con la convocazione della conferenza di servizi ai sensi del comma 2 dello stesso art. 20;
  • l'art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990 stabilisce tuttavia che la disciplina di cui allo stesso articolo non si applica agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l'ambiente;
  • fra le suddette disposizioni (art. 13 legge n. 394 del 1991 e art. 20 legge n. 241 del 1990) intercorre un’antinomia, per sciogliere la quale le Sezioni del Consiglio di Stato hanno fatto ricorso a criteri differenti, pervenendo in tal modo a soluzioni opposte;

ha disposto il deferimento della questione all'Adunanza Plenaria.

Il testo dell’ordinanza della Sezione Quarta del Consiglio di Stato n. 538 del 9 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.


Il Consiglio di Stato esamina la disciplina in materia di documentazione non prodotta nel giudizio di primo grado e precisa che:

  • l’art. 104, comma 2, c.p.a. tempera il divieto di produzione di documenti nuovi in appello con la condizione che “il collegio li ritenga indispensabili alla decisione della causa, ovvero che la parte dimostri di non aver potuto … produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”;
  • la disciplina contenuta nell'art. 104, comma 2, c.p.a. è testualmente ricalcata su quella dell’art. 345, comma 3, c.p.c., la quale, peraltro, ha subito una successiva modifica ad opera dell'art. 54 del decreto legge n. 83 del 2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 2012), che ha soppresso, in sede di conversione, le parole: "che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero"; tale modifica, comunque, non ha inciso sulla disciplina del processo amministrativo, non potendosi supporre che l’art. 104, comma 2, c.p.a. abbia inteso operare una sorta di implicito rinvio mobile al codice del rito civile;
  • benché sia diffusa l’interpretazione secondo cui l’art. 104, comma 2, c.p.a. detterebbe criteri alternativi e non cumulativi, destinati dunque a essere analizzati separatamente, è da ritenersi inibita alla parte la possibilità di essere rimessa in termini attraverso la produzione di documenti in appello, trattandosi di attività non consentita al di fuori del necessario giudizio di indispensabilità, il quale a sua volta implica che tale offerta di prova nel giudizio di secondo grado non sia preordinato a supplire a negligenze della parte onerata;
  • non è conforme ai canoni di correttezza e lealtà processuale e appare sostanzialmente elusivo del principio del doppio grado di giudizio il comportamento della parte che pretende di fondare le proprie difese su documenti che, secondo un criterio di ordinaria diligenza, avrebbe potuto facilmente versare in primo grado e che invece ha del tutto omesso di produrre in quella sede.

Il testo della sentenza della Sezione Quarta del Consiglio di Stato n. 472 in data 8 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.


Si allega il parere n. 66 della Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del Consiglio di Stato reso nell'Adunanza del 14 gennaio 2016 sullo schema di decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri concernente “Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico”.


Il Consiglio di Stato rimette all'Adunanza Plenaria la questione se nel computo dei termini processuali, il cui inizio cada nel periodo feriale dal 1° al 31 agosto, debba essere compreso anche il giorno del primo 1° settembre oppure se il 1° settembre debba individuarsi quale dies a quo con la conseguenza che tale giorno, ai sensi dell’art. 155 cod. proc. civ., non debba essere computato nel termine.

Il testo dell’ordinanza della Sezione Sesta del Consiglio di Stato n. 509 in data 8 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.


Il TAR Puglia Bari, Sezione Terza, nell'esaminare la disposizione dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, nel testo novellato dalla legge n. 124 del 2015, osserva che:
  • il fatto che il legislatore non abbia sostituito le parole “termine ragionevole” con le parole “comunque non superiore a 18 mesi”, che invece ad esse si aggiungono, induce a ritenere che si tratti di un’operazione meramente interpretativa con la quale si è inteso specificare che il termine ragionevole non può superare i 18 mesi;
  • con la disposizione in esame il legislatore ha inteso dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il quale sarebbe senz'altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso di detto termine;
  • avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, va escluso che il termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa della disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando, si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il provvedimento amministrativo non può essere annullato se non in sede giurisdizionale.

Si ricorda, in ogni caso, che il comma 2 bis dell'art. 21 novies della legeg n. 241 del 1990 prevede che i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni  sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate  con  sentenza  passata  in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1 dello stesso articolo. 


Il testo della sentenza n. 47 del 14 gennaio 2016 della Sezione Terza del TAR Puglia, Bari, è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa


Il Consiglio di Stato, con riferimento al c.d. preavviso di ricorso ex art. 243 bis del decreto legislativo n. 163 del 2006, ricorda che secondo l’orientamento giurisprudenziale formatosi sulla disposizione in esame:
  • il c.d. preavviso di ricorso previsto dall'art. 243 bis non comporta per l’amministrazione alcun obbligo di riesame né di sospensione della procedura e neppure un obbligo di risposta espressa, potendo la stessa formarsi per silentium ai sensi del comma 6;
  • la procedura introdotta a seguito del preavviso di ricorso non influisce sull'esito della gara, cosicché la stazione appaltante può legittimamente aggiudicare in via definitiva la gara senza attendere l’esito del riesame e il comportamento della stazione appaltante può al più essere valutato in sede giurisdizionale ai fini risarcitori, in ipotesi di successiva accertata illegittimità, e in ogni caso in sede di regolamento delle spese processuali;
  • lo strumento in esame non è posto a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma è finalizzato a sollecitare l’amministrazione ad un eventuale riesame, comunque non obbligatorio, del proprio operato in autotutela, il cui esito negativo per l’istante ha natura meramente confermativa del provvedimento contestato, privo di carattere lesivo rispetto a quest’ultimo e dunque non comportante alcun onere di impugnativa.

Il testo della sentenza della Sezione Quinta del Consiglio di Stato n. 402 del 3 febbraio 2016 è consultabile sul sito della Giustizia Amministrativa.



Il TAR Lombardia, Milano, Sezione Seconda, aderisce all'orientamento giurisprudenziale secondo il quale, là dove si sia in presenza del c.d. factum principis o di cause di forza maggiore, l'interessato che voglia impedire la decadenza del titolo edilizio per il mancato tempestivo inizio dei lavori è pur sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso, proroga che deve essere accordata con atto espresso dell'Amministrazione; il TAR precisa inoltre che, affinché si possa dare rilevanza a un provvedimento che impedisca l’edificazione, è necessario che questo risulti illegittimo in quanto emesso in carenza dei presupposti previsti dalla vigente normativa; in caso contrario, quando cioè l’atto che inibisce l’esecuzione dei lavori sia conforme alla legge, la parte non può pretendere di essere ammessa al beneficio della proroga del termine.

Il testo della sentenza n. 201 del 29 gennaio 2016 della Sezione Seconda del TAR Lombardia, Milano, è consultabile sul sito istituzionale della Giustizia Amministrativa



La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 11 del 29 gennaio 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge della Regione Campania n. 15 del 2000, nella parte in cui prevede che il recupero abitativo dei sottotetti (esistenti alla data del 17 ottobre 2000) possa essere realizzato in deroga alle prescrizioni dei piani paesaggistici e alle prescrizioni a contenuto paesaggistico dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici; la norma regionale srutinata, assegnando all'ordine inferiore della disciplina urbanistica la definizione del regime concreto degli interventi di recupero abitativo dei sottotetti, anche in deroga alle prescrizioni paesaggistiche, degrada la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente a mera «esigenza urbanistica», parcellizzata tra i vari comuni competenti al rilascio dei singoli titoli edilizi; in questo modo risulta compromessa quell'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica, assunta dalla normativa statale a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme sull'intero territorio nazionale, idonea a superare la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali.


La sentenza n. 11 del 29 gennaio 2016 della Corte Costituzionale è consultabile sul sito della Corte Costituzionale.